Meditando

Il lupo della steppa

Dissertazione

C’era una volta un tale di nome Harry, detto il “lupo della steppa”.
Camminava con due gambe, portava abiti ed era un uomo, ma, a rigore, era un lupo.
Aveva imparato parecchio di quel che possono imparare gli uomini dotati d’intelligenza, ed era uomo piuttosto savio.
Ma una cosa non aveva imparato: a essere contento di sé e della sua vita.
Non ci riusciva, era un uomo scontento.
Ciò dipendeva probabilmente dal fatto che in fondo al cuore sapeva (o credeva di sapere) di non essere veramente un uomo, ma un lupo venuto dalla steppa.
I saggi potranno discutere se sia stato veramente un lupo e una volta, forse prima della nascita, sia stato tramutato per incantesimo da lupo in uomo, oppure sia nato uomo ma con un’anima di lupo, o se magari questa persuasione, di essere veramente un lupo, sia stata una sua fissazione o malattia.
Potrebbe darsi, per esempio, che costui sia stato nella fanciullezza stregato e indomabile e disordinato, e che i suoi educatori abbiano cercato di ammazzare la bestia che aveva dentro e proprio in questo modo abbiano suscitato in lui la fantasia e la credenza di essere effettivamente una bestia, con sopra soltanto una leggera crosta di educazione e di umanità.
Su questo argomento si potrebbe discorrere a lungo e in modo divertente e scrivere magari dei libri; ma poco servirebbe al lupo della steppa, poiché per lui era indifferente che il lupo fosse entrato in lui per magìa o fosse soltanto una fantasia della mente.
Quello che ne potevano pensare gli altri o anche lui stesso non aveva per lui alcun valore, non bastava a cavargli di dentro il lupo.
Il lupo della steppa dunque aveva due nature, una umana e una lupina: questa era la sua sorte e può ben darsi che questa sorte non sia poi né speciale né rara.
Si son già visti, dicono, uomini che avevano molto del cane o della volpe, del pesce o del serpente, senza che per questo incontrassero particolari difficoltà nella vita.
Vuol dire che in costoro l’uomo e la volpe, l’uomo e il pesce vivevano insieme, e nessuno faceva del male all’altro, anzi l’uno aiutava l’altro, e in certi uomini che hanno fatto strada e sono invidiati era stata la volpe o la scimmia piuttosto che l’uomo a fare la loro fortuna.
Sono cose che tutti sanno.
Per Harry invece le cose stavano diversamente: in lui l’uomo e il lupo non erano appaiati e meno ancora si aiutavano a vicenda; al contrario, vivevano in continua inimicizia mortale, e l’uno viveva a dispetto dell’altro, e quando in un sangue e in un’anima ci sono due nemici mortali, la vita è un guaio.
Certo, ciascuno ha il suo destino e nessuno ha la vita facile.
Ora, nel nostro lupo della steppa avveniva questo: che nel suo sentimento faceva ora la vita del lupo, ora quella dell’uomo, come accade in tutti gli esseri misti, ma quando era lupo, l’uomo in lui stava a guardare, sempre in agguato per giudicare e condannare…
e quando era uomo, il lupo faceva altrettanto.
Per esempio, quando Harry uomo concepiva un bel pensiero, provava un sentimento nobile e fine o faceva una così detta buona azione, il lupo che aveva dentro digrignava i denti e sghignazzava, e gli mostrava con sanguinoso sarcasmo quanto era ridicola quella nobile teatralità sul muso d’un animale della steppa, di un lupo che sapeva benissimo quali fossero i suoi piaceri, trottare cioè solitario attraverso le steppe, empirsi ogni tanto di sangue o dar la caccia a una lupa…
e, considerata dal punto di vista del lupo, ogni azione umana diventava orribilmente buffa e imbarazzante, sciocca e vana.
Ma succedeva lo stesso quando Harry si sentiva lupo e si comportava come tale, quando mostrava i denti e provava odio e inimicizia mortale contro tutti gli uomini e le loro costumanze false e degenerate.
Allora infatti la parte umana stava in agguato, teneva d’occhio il lupo, lo insultava chiamandolo bestia e belva e gli amareggiava tutta la gioia della sua semplice, sana e selvatica natura lupina.
Così era fatto il lupo della steppa e si può ben immaginare che Harry non faceva una vita assai piacevole e beata.
Non si vuol dire però che fosse particolarmente infelice (benché a lui paresse così, come del resto ogni uomo crede che le sue sofferenze siano le più grandi).
Di nessuno lo si dovrebbe affermare.
Anche chi non ha il lupo dentro di sé, non per questo dev’essere felice.
E d’altro canto anche la vita più infelice ha le sue ore di sole e i suoi fiorellini fortunati in mezzo alla sabbia e alle petraie.
Così era anche il lupo della steppa.
Per lo più era molto infelice, non diciamo di no, e rendeva anche infelici gli altri, quando cioè li amava ed essi amavano lui.
Tutti infatti coloro che prendevano a volergli bene vedevano soltanto uno dei suoi lati.
Certuni lo amavano come uomo gentile, savio e singolare e rimanevano atterriti e delusi quando scoprivano in lui improvvisamente il lupo.
E non potevano fare a meno di scoprirlo, perché Harry, come tutti gli esseri, voleva essere amato tutto intero e non poteva quindi nascondere o negare il lupo di fronte a coloro al cui affetto teneva particolarmente.
Ma ce n’erano altri che amavano in lui precisamente il lupo, quella sua libertà selvatica e indomita, il pericolo e la forza, e costoro erano poi a loro volta assai delusi e dolenti quando il lupo cattivo rivelava a un tratto anche l’uomo, quando si struggeva dalla nostalgia di bontà e tenerezza e voleva ascoltare Mozart, leggere poesie e nutrire ideali di umanità.
Questi specialmente erano delusi e indignati sicché il lupo della steppa comunicava la sua duplice natura e i suoi dissidi anche a coloro coi quali veniva a contatto.
Ma chi credesse di conoscere ora il lupo della steppa e di poter immaginare la sua vita misera e straziata sarebbe in errore: egli non sa ancora tutto, neanche lontanamente.
Non sa che (come non c’è regola senza eccezione, e come in date circostanze il buon Dio preferisce un unico peccatore a novantanove giusti), non sa che a Harry capitavano anche eccezioni e casi fortunati, che egli sentiva talvolta il lupo, tal’altra l’uomo respirare e pensare dentro di sé indisturbato e puro, che entrambi, qualche rara volta, facevano persino la pace e vivevano l’uno per l’altro, di modo che l’uno dormiva mentre l’altro vegliava, non solo, ma diventavano più forti tutti e due sicché l’uno raddoppiava l’altro.
Anche nella vita di quest’uomo, come dovunque nel mondo, pareva talvolta che le cose comuni, quotidiane e regolari avessero puramente lo scopo di fare ogni tanto una sosta di secondi, di accogliere il miracolo e la grazia.
Se queste brevi e rare ore di felicità pareggiassero e mitigassero la triste sorte del lupo della steppa in modo da formare un equilibrio tra felicità e dolore, o se addirittura la felicità breve ma intensa di quei pochi momenti assorbisse tutto il dolore e risultasse positiva, questa è un’altra questione sulla quale possono ponzare a piacimento coloro che non hanno niente da fare.
Anche il lupo ci pensava spesso, e quelle erano le sue giornate oziose e inutili.
A questo punto dobbiamo aggiungere anche un’altra cosa.
Esistono non pochi uomini simili a Harry; specialmente molti artisti appartengono a questa categoria.
Costoro hanno in sé due anime, due nature, hanno un lato divino e un lato diabolico, il sangue materno e il sangue paterno, e le loro capacità di godere e di soffrire sono così intrecciate, ostili e confuse tra loro come in Harry il lupo e l’uomo.
E questi uomini la cui vita è molto irrequieta hanno talvolta nei rari momenti di felicità sentimenti così profondi e indicibilmente belli, la schiuma della beatitudine momentanea spruzza così alta e abbagliante sopra il mare del loro dolore, che quel breve baleno di felicità s’irradia anche su altri e li affascina.
Così nascono, preziosa e fugace schiuma di felicità sopra il mare della sofferenza, tutte le opere d’arte nelle quali un uomo che soffre si inalza per un momento tanto al di sopra del proprio destino che la sua felicità brilla come un astro e appare a chi la vede come una cosa eterna, come il suo proprio sogno di felicità.
Tutti questi uomini, qualunque siano le loro gesta e le loro opere, non hanno veramente alcuna vita, vale a dire la loro vita non è un’esistenza, non ha una forma, essi non sono eroi o artisti o pensatori come altri possono essere giudici, medici, calzolai o maestri, ma la loro vita è un moto eterno, una mareggiata penosa, è disgraziatamente e dolorosamente straziata, paurosa o insensata, quando non si voglia trovarne il significato proprio in quei rari avvenimenti e fatti, pensieri e opere che balzano luminosi sopra il caos di una simile vita.
Tra gli uomini di questa specie è nato il pensiero pericoloso e terribile che forse tutta la vita umana è un grave errore, un aborto della Madre primigenia, un tentativo della Natura orribilmente fallito.
Tra loro, però, è nato anche quell’altro pensiero, che cioè l’uomo non è forse soltanto un animale relativamente ragionevole ma un figlio degli dei destinato all’immortalità.
Ogni natura umana ha i suoi lineamenti caratteristici, il suo marchio, le virtù e i vizi, il suo peccato mortale.
Uno dei caratteri del lupo della steppa era quello di essere un uomo serale.
Per lui il mattino era la parte cattiva della giornata che egli temeva e non gli portò mai alcun bene.
Egli non fu mai lieto in nessuna mattinata della vita, non ha mai fatto nulla di bene prima di mezzogiorno, mai avuto buone idee, mai fatto cosa grata a sé o agli altri.
Solo durante il pomeriggio si scaldava lentamente e diventava vivo, soltanto verso sera, nelle giornate buone, diventava fecondo, attivo e persino ardente e lieto.
Per questo aveva tanto bisogno di solitudine e d’indipendenza.
Nessuno ha mai avuto un bisogno più profondo e più appassionato di essere indipendente.
Da giovane, quando era ancora povero e faceva fatica a guadagnarsi il pane, preferiva soffrir la fame e andar intorno stracciato pur di salvare un brano della sua indipendenza.
Non si è mai venduto per denaro o benessere, non si è mai dato alle donne o ai potenti, e mille volte ha buttato via e rifiutato quello che secondo tutti sarebbe stato il suo bene e il suo vantaggio, pur di conservare in compenso la libertà.
Nessun’idea gli era più odiosa e ripugnante che quella di avere un impiego, osservare un orario, obbedire agli altri.
Odiava gli uffici e le cancellerie come la morte, e la cosa più orrenda che gli potesse capitare in sogno era la prigionia in una caserma.
A tutte queste sciagure seppe sottrarsi, spesso anche con grandi sacrifici.
In ciò consistevano la sua forza e la sua virtù, qui era inflessibile e incorruttibile e il suo carattere era saldo e rettilineo.
Ma con questa virtù erano anche strettamente collegate le sue sofferenze e la sua sorte.
Capitò a lui ciò che capita a tutti: quel che cercava con ostinazione per l’intimo bisogno della sua natura egli lo raggiunse, ma più di quanto sia bene per l’uomo.
Ciò che da principio fu il suo sogno di felicità, divenne in seguito il suo amaro destino.
L’uomo avido di potere incontra la sua rovina nel potere, l’uomo bramoso di denaro nel denaro, il sottomesso nella servitù, il gaudente nel piacere.
E così il lupo della steppa si rovinò con l’indipendenza.
La meta egli la raggiunse e divenne sempre più indipendente, nessuno gli comandava, non era costretto a seguire nessuno e decideva liberamente delle sue azioni e omissioni.
Ogni uomo forte infatti raggiunge immancabilmente ciò che il suo vero istinto gli ordina di volere.
Ma raggiunta la libertà Harry s’accorse a un tratto che la sua libertà era morte, che era solo, che il mondo lo lasciava paurosamente in pace, che gli uomini non lo riguardavano più né lui riguardava se stesso, che soffocava lentamente in un’aria sempre più rarefatta senza relazioni e senza compagnia.
Infatti era arrivato al punto che la solitudine e l’indipendenza non erano più un’aspirazione, una meta, bensì la sua sorte, la sua condanna; e una volta pronunciata la formula magica senza poterla più ritirare, a nulla gli serviva tendere le braccia con desiderio e buona volontà ed essere disposto a cercar legami e comunioni: tutti lo lasciavano solo.
Non che fosse odioso o antipatico alla gente.
Al contrario, aveva moltissimi amici.
Molti gli volevano bene.
Ma quella che incontrava era soltanto simpatia amichevole; lo invitavano, gli facevano regali, gli scrivevano lettere garbate, ma nessuno gli si accostava, nessuno si legava a lui, nessuno aveva la voglia o la capacità di condividere la sua vita.
Adesso era circondato dall’aria dei solitari, da un’atmosfera tranquilla, dall’incapacità di rapporti col mondo che gli scivolava via, e contro questo stato di cose nulla potevano la volontà e la nostalgia.
Questo era uno dei tratti più caratteristici della sua vita.
Ce n’era anche un altro: egli faceva parte della categoria dei suicidi.
A questo punto dobbiamo osservare che è errato definire suicidi solamente coloro che si uccidono davvero.
Tra questi ci sono anzi molti che diventano suicidi quasi per caso e il suicidio non fa necessariamente parte della loro natura.
Tra gli uomini senza personalità, senza un’impronta marcata, senza un forte destino, tra gli uomini da dozzina e da branco ce ne sono parecchi che commettono suicidio senza per questo appartenere per carattere al tipo dei suicidi, mentre viceversa moltissimi di coloro che vanno annoverati per natura fra i suicidi, anche forse la maggior parte, effettivamente non attentano alla propria vita.
Il “suicida” (Harry era uno di questi) non occorre che abbia uno stretto rapporto con la morte: lo si può avere anche senza essere suicidi.
Ma il suicida ha questo di caratteristico: egli sente il suo io, indifferente se a ragione o a torto, come un germe della natura particolarmente pericoloso, ambiguo e minacciato, si reputa sempre molto esposto e in pericolo, come stesse sopra una punta di roccia sottilissima dove basta una piccola spinta esterna o una minima debolezza interna per farlo precipitare nel vuoto.
Di questa sorta di uomini si può dire che il suicidio è per loro la qualità di morte più probabile, per lo meno nella loro immaginazione.
La premessa di questo stato d’animo che appare tale fin dalla giovinezza e accompagna costoro per tutta la vita, non è già una deficienza di energie vitali, ma, al contrario, fra i “suicidi” si incontrano nature straordinariamente tenaci, bramose e persino ardite.
Ma come esistono complessioni che nelle più lievi malattie tendono alla febbre, così coloro che chiamiamo “suicidi” e sono sempre molto sensibili, hanno la tendenza, alla minima scossa, a darsi intensamente all’idea del suicidio.
Se possedessimo una scienza coraggiosa, con la responsabilità di occuparsi dell’uomo invece che del meccanismo dei fenomeni vitali, se avessimo, diciamo, un’antropologia, una psicologia, questi fatti sarebbero noti a tutti.
Ciò che abbiamo detto dei suicidi riguarda beninteso soltanto la superficie, è psicologia, vale a dire un settore della fisica.
Dal punto di vista metafisico la faccenda è diversa e assai più limpida perché qui i “suicidi” sono affetti dalla colpa dell’individuazione, sono quelle anime che non considerano scopo della vita il perfezionamento e lo sviluppo di se stesse, bensì il dissolvimento, il ritorno alla Madre, il ritorno a Dio, il ritorno al Tutto.
Tra costoro moltissimi sono assolutamente incapaci di commettere realmente il suicidio, perché lo considerano peccato.
Ma per noi sono pur sempre suicidi perché vedono la redenzione nella morte invece che nella vita e sono pronti a buttarsi via, ad abbandonarsi, a spegnersi e a ritornare all’inizio.
Come ogni forza può (in certe circostanze deve) diventare una debolezza, così viceversa il suicida tipico può fare della sua debolezza apparente molte volte una forza e un sostegno, anzi lo fa molto spesso.
Uno di questi casi era quello di Harry, il lupo della steppa.
Come migliaia di suoi pari egli faceva dell’idea che la via della morte gli era sempre aperta davanti a sé non solo un giuoco di fantasia giovanile e malinconico, ma precisamente un conforto e un appoggio.
E’ vero che, come in tutti gli uomini di questo genere, ogni commozione, ogni dolore, ogni penosa situazione della vita suscitava in lui il desiderio di sottrarvisi con la morte.
Ma a poco a poco questa inclinazione gli si tramutò in una filosofia favorevole alla vita.
L’assiduo pensiero che quell’uscita di soccorso era continuamente aperta gli dava forza, lo rendeva curioso di assaporare dolori e malanni, e quando stava proprio male gli capitava di pensare con gioia rabbiosa, come si trattasse di un male altrui: “Son curioso di vedere fin dove arriva la sopportazione umana! Una volta raggiunto il limite del tollerabile mi basta aprire la porta e sono salvo”.
Ci sono moltissimi suicidi ai quali questo pensiero conferisce energie insolite.
D’altro canto tutti i suicidi conoscono anche la lotta contro la tentazione del suicidio.
In qualche angolino della mente ognuno ha la convinzione che il suicidio è bensì una via d’uscita ma, in fondo, un’uscita di soccorso piuttosto volgare e illegittima, e che è più nobile, più bello lasciarsi vincere e abbattere dalla vita che dalle proprie mani.
Questa consapevolezza, questa cattiva coscienza induce la maggior parte dei “suicidi” a una lotta diuturna contro la tentazione.
Essi combattono come il cleptomane combatte contro il proprio vizio.
Anche il lupo della steppa conosceva questa lotta, l’aveva combattuta con armi diverse.
Infine, all’età di circa quarantasette anni gli venne un’idea felice, non priva di umorismo, che più volte ebbe a fargli piacere.
Fissò al suo cinquantesimo compleanno il giorno in cui si sarebbe concesso il suicidio.
In quel giorno, così convenne con se stesso, avrebbe avuto la libertà di servirsi o non servirsi dell’uscita di soccorso secondo il capriccio della giornata.
Qualunque cosa gli capitasse, una malattia, la povertà, un dolore, un’amarezza: tutto aveva un termine segnato, tutto poteva durare al massimo quei pochi anni, mesi e giorni, il cui numero diventava sempre più esiguo.
Difatti incominciò a sopportare più facilmente certi guai che prima l’avrebbero torturato più profondamente e più a lungo o forse scosso fin dalle radici.
Quando stava particolarmente male per qualsiasi ragione, quando al suo isolamento e alla vita deserta si aggiungevano perdite o dolori particolari, egli si rivolgeva a quei dolori dicendo: “Aspettate, ancora due anni e avrò ragione di voi!”.
Poi si sprofondava con amore nell’idea di quel cinquantesimo compleanno e immaginava la mattina in cui sarebbero arrivate le lettere di augurio, mentre lui, sicuro del proprio rasoio, prendeva commiato da tutti i dolori e chiudeva la porta dietro di sé.
Allora addio artrite nelle ossa, addio malinconie, emicranie e dolori di ventre! Ci rimane ancora da spiegare il fenomeno singolare del lupo della steppa e particolarmente i suoi singolari rapporti con la borghesia facendo risalire questi fenomeni alle loro leggi fondamentali.
Prendiamo dunque le mosse da quel suo rapporto con la vita “borghese”! Secondo le sue convinzioni il lupo della steppa era al di fuori del mondo borghese poiché non aveva né una famiglia né ambizioni sociali.
Si sentiva isolato, si considerava un originale, un eremita malato, talvolta anche un individuo oltre il normale, di attitudini genialoidi, superiore alle piccole norme della vita comune.
Aveva in dispregio i borghesi ed era orgoglioso di non essere uno di loro.
Tuttavia faceva una vita assai borghese, possedeva denaro depositato alle banche, soccorreva i parenti poveri, si vestiva senza ricercatezza ma decentemente e cercava di vivere in buona armonia con la polizia, con l’esattore delle tasse e simili autorità.
Oltre a ciò una segreta nostalgia lo spingeva continuamente verso il piccolo mondo borghese, verso le case tranquille e decenti coi giardinetti ben curati, con le scale pulite e la loro modesta atmosfera di ordine e di vita ammodo.
Teneva ad avere i suoi vizietti e le sue stravaganze, a sentirsi originale o geniale al di là della borghesia, ma abitava e viveva, per così dire, soltanto in quelle provincie della vita dove ci fosse uno spirito borghese.
Non si trovava a suo agio nell’atmosfera degli uomini violenti, delle persone d’eccezione né in quella dei delinquenti e dei fuori legge, ma rimaneva sempre nella provincia dei borghesi con le cui norme e consuetudini aveva sempre qualche rapporto, sia pure quello dell’antitesi e della rivolta.
Oltre a ciò era cresciuto in un ambiente piccolo-borghese e ne aveva conservato una gran quantità di concetti e di schemi.
In teoria non aveva niente da ridire contro la prostituzione, ma non sarebbe stato assolutamente capace di prendere sul serio una prostituta e di considerarla realmente come prossimo.
Era capace di amare come fratelli i delinquenti politici, i rivoluzionari o quei seduttori intellettuali che lo stato e la società mettono al bando, ma di fronte a un ladro o a un assassino non avrebbe saputo altro che compiangerli alla maniera borghese.
In questo modo riconosceva sempre, con una metà della sua natura, ciò che con l’altra combatteva e negava.
Allevato in una casa civile, in forme e costumanze consolidate, era rimasto attaccato con una parte dell’anima agli ordinamenti di quel mondo anche quando si era da gran tempo individualizzato oltre le misure possibili nella borghesia e liberato dai contenuti dell’ideale e della fede borghese.
Ora la “borghesia”, condizione immanente nell’umanità, non è altro che un tentativo di equilibrio, l’aspirazione a una via di mezzo tra gl’innumerevoli estremi e poli contrapposti della vita umana.
Prendiamo per esempio un paio di questi poli antitetici, poniamo quello del santo e del gaudente, e comprenderemo facilmente la similitudine.
L’uomo ha la possibilità di darsi tutto allo spirito, al tentativo di avvicinarsi alla divinità, all’ideale della santità.
Viceversa può anche darsi tutto alla vita istintiva, al desiderio dei sensi, e rivolgere tutte le sue aspirazioni all’acquisto di piaceri fugaci.
Una di queste vie porta alla santità, al martirio dello spirito, all’annullamento in Dio.
L’altra porta al godimento, al martirio dell’istinto, all’annullamento nella putredine.
Il borghese cerca di vivere nel mezzo fra l’una e l’altra.
Egli non rinuncerà mai a se stesso, non si abbandonerà né all’ebbrezza né all’ascesi, non sarà mai un martire, non acconsentirà mai al proprio annullamento: al contrario, il suo ideale non è la dedizione, bensì la conservazione dell’io, la sua tendenza non mira né alla santità né al contrario, l’assoluto gli è intollerabile, egli vuol servire Iddio ma anche l’ebbrezza, vuol essere virtuoso ma anche passarsela bene e comodamente su questa terra.
Tenta insomma di insediarsi nel mezzo tra gli estremi, in una zona temperata e sana, senza burrasche e temporali, e ci riesce, ma rinunciando a quell’intensità di vita e di sentimento che offre una vita rivolta all’assoluto e all’estremo.
Vivere intensamente si può soltanto a scapito dell’io.
Il borghese però non stima nulla quanto l’io (certo un io di sviluppo soltanto rudimentale).
A spese dell’intensità egli ottiene dunque conservazione e sicurezza, invece che ossessione divina raccoglie tranquillità di spirito, invece che piacere agio, invece che libertà comodità, invece che ardenza mortale una temperatura gradevole.
Per sua natura dunque il borghese è una creatura di debole slancio vitale, paurosa, desiderosa di evitare rinunce, facile da governare.
Perciò ha sostituito al potere la maggioranza, alla violenza la legge, alla responsabilità la votazione.
E’ evidente che quest’essere debole e timido, anche se esistesse in numero stragrande, non può reggersi e che per le sue qualità non potrebbe avere nel mondo altra parte che quella d’un gregge di agnelli in mezzo ai lupi in libertà.
Tuttavia vediamo che in epoche di regimi molto forti il borghese si trova bensì il piede sul collo, ma non perisce mai, anzi talvolta sembra che domini il mondo.
Com’è possibile? Né il gran numero del suo gregge né la virtù né il buon senso né l’organizzazione avrebbero forze sufficienti per salvarlo dalla rovina.
Chi è indebolito inizialmente nell’intensità di vivere, nessuna medicina al mondo può tenerlo vivo.
Eppure la borghesia vive, è forte e prospera.
Perché? Ecco la risposta: per via dei lupi della steppa.
Difatti la forza vitale della borghesia non si fonda sulle qualità dei suoi membri normali, bensì su quelle degli outsider straordinariamente numerosi che essa per l’elasticità e la nebulosità dei propri ideali è in grado di abbracciare.
Nella borghesia c’è sempre anche un gran numero di caratteri forti e selvaggi.
Harry, il nostro lupo della steppa, ne è un esempio caratteristico.
Pur essendo sviluppato a individuo oltre le possibilità del borghese, pur conoscendo la voluttà della meditazione come anche le tetre gioie dell’odio e del disprezzo di se stesso, pur tenendo a vile la legge, la virtù e il buon senso, egli è un forzato della borghesia e non può sfuggirle.
Così intorno al nucleo della borghesia genuina si depositano larghi strati di umanità, migliaia di vite e d’intelligenze, ognuna delle quali avrebbe già superato la borghesia e sarebbe chiamata a vivere nell’assoluto ma, attaccata alla borghesia con sentimenti infantili e contagiata nella sua debole intensità di vita, permane in qualche modo nella borghesia e continua ad esserle soggetta, obbligata e asservita.
Per la borghesia infatti vale il contrario di quanto vale per i grandi: chi non è contro di me, è per me! Se esaminiamo con questo criterio l’anima del lupo della steppa, vedremo che è un uomo il cui alto grado di individuazione lo destinerebbe a non essere borghese: poiché ogni individuazione intensa si svolge contro l’io e tende a distruggerlo.
Noi vediamo che ha forti tendenze sia alla santità sia al godimento, ma per qualche debolezza o pigrizia non poté prendere lo slancio verso i liberi spazi del mondo e rimase legato al pesante astro materno della borghesia.
Questa è la sua posizione nello spazio universale, questo il suo legame.
La maggior parte degl’intellettuali, la maggioranza degli artisti appartiene allo stesso tipo.
Solo i più forti tra loro attraversano l’atmosfera della terra borghese e arrivano al cosmo, tutti gli altri si rassegnano o stipulano compromessi, disprezzano la borghesia e continuano a farne parte, a rafforzarla, ad esaltarla, poiché in fondo devono pur essere d’accordo con lei se vogliono vivere.
Per queste innumerevoli esistenze essa non è tragedia, ma una cattiva stella, una mala sorte nel cui inferno il loro talento è cucinato e reso fecondo.
I pochi che riescono a divincolarsi trovano la via dell’assoluto e periscono in modo ammirevole: sono i casi tragici e il loro numero è esiguo.
Agli altri invece, a quelli che rimangono legati, al cui ingegno la borghesia tributa spesso grandi onori, a loro rimane aperto un terzo regno, un mondo immaginario ma sovrano: l’umorismo.
I lupi della steppa che sono senza pace, che soffrono continuamente e terribilmente, che non hanno lo slancio necessario per arrivare alla tragedia, per penetrare nello spazio astrale, che sentono la vocazione dell’assoluto eppure non vi possono vivere: quando il loro spirito si è fatto abbastanza forte ed elastico nella sofferenza, trovano la confortante via d’uscita dell’umorismo.
Questo rimane sempre, in qualche modo, borghese quantunque il borghese autentico sia incapace di comprenderlo.
Nella sua sfera immaginaria si realizza il complicato e multiforme ideale di tutti i lupi della steppa: qui è possibile non solo riconoscere la santità e il godimento, avvicinare per forza i due poli, ma includere in questo riconoscimento anche la borghesia.
Chi è posseduto da Dio può benissimo accettare il delinquente e viceversa, ma a tutti e due, come a tutti gli assoluti, è impossibile accettare ancora quel tepore medio e neutro che è la borghesia.
Soltanto l’umorismo, la stupenda invenzione di chi si vede troncata la vocazione alle cose più grandi, l’invenzione dei tipi quasi tragici, degl’infelici dotati di massima intelligenza, soltanto l’umorismo (la trovata forse più singolare e più geniale dell’umanità) compie l’impossibile, illumina e unisce tutte le zone della natura umana alle irradiazioni dei suoi prismi.
Vivere nel mondo come non fosse il mondo, rispettare la legge e stare tuttavia al di sopra della legge, possedere come se non si possedesse, rinunciare come se non fosse rinuncia: tutte queste esigenze d’un’alta saggezza di vita si possono realizzare unicamente con l’umorismo.
E se il lupo della steppa cui non mancano le doti e le attitudini dovesse riuscire nella greve giungla del suo inferno a distillare questa magica bevanda, sarebbe salvo.
Ma gli manca ancora molto per arrivarci.
Esiste però la possibilità, la speranza.
Chi gli vuol bene, chi s’interessa a lui certo gli augura questa salvezza.
Egli rimarrebbe per sempre nel mondo borghese ma i suoi dolori sarebbero sopportabili, diverrebbero fecondi.
I suoi rapporti con la borghesia, nell’amore e nell’odio, non sarebbero più sentimentali e i suoi legami con quel mondo cesserebbero di essere per lui una continua vergogna e una tortura.
Per arrivare a questo scopo o poter addirittura tentare il balzo nell’universo, questo lupo della steppa dovrebbe trovarsi una volta di fronte a se stesso, dovrebbe vedere il caos nella propria anima e arrivare finalmente a una perfetta coscienza di sé.
Gli si rivelerebbe allora la sua esistenza problematica in tutta la sua immutabilità e non gli sarebbe più possibile rifugiarsi continuamente dall’inferno degl’istinti nelle consolazioni sentimentali e filosofiche e da queste ancora nella cieca ebbrezza della sua natura lupina.
Uomo e lupo sarebbero costretti a riconoscersi a vicenda senza false maschere sentimentali, a guardarsi apertamente negli occhi.
Allora o esploderebbero e si staccherebbero per sempre, sicché non ci sarebbe più il lupo della steppa, o concluderebbero alla luce dell’umorismo nascente un connubio di convenienza.
Può darsi che Harry giunga un giorno a questa estrema possibilità.
Può darsi che un giorno impari a conoscersi, sia prendendo in mano uno dei nostri specchietti sia incontrando gl’immortali o trovando forse in uno dei nostri teatri magici quel che gli occorre per liberare la sua anima trasandata.
Mille di queste possibilità lo attendono, il suo destino le attrae irresistibilmente, tutti questi outsid-er della borghesia vivono nell’atmosfera di queste magiche possibilità.
Basta un nulla perché la folgore colpisca.
Tutte queste cose il lupo della steppa le sa benissimo, anche se questo abbozzo della sua biografia intima non dovesse capitargli mai tra le mani.
Egli intuisce la sua posizione nell’universo, intuisce e conosce gl’immortali, ha il presentimento e il timore di un possibile incontro con se stesso, sa che esiste quello specchio nel quale egli avrebbe tanto bisogno di guardare, ma del quale ha tanta paura.
Alla fine di questo nostro studio ci rimane da spiegare ancora un’ultima finzione, un’illusione fondamentale.
Tutte le “spiegazioni”, tutta la psicologia, tutti i tentativi di comprensione hanno bisogno di aiuti, di teorie, di mitologie, di menzogne; e lo scrittore onesto non dovrebbe far a meno di risolvere alla fine di ogni suo scritto queste menzogne per quanto sia possibile.
Se dico “sopra” e “sotto” faccio un’affermazione che esige una spiegazione, poiché sopra e sotto esistono soltanto nel pensiero, soltanto nell’astrazione.
Il mondo non ha né sopra né sotto.
E così, per farla breve, anche il “lupo della steppa” è una finzione.
Se Harry si considera uomo-lupo e opina di essere composto di due nature ostili e antitetiche, non fa che della mitologia semplificatrice.
Harry non è affatto un uomo-lupo e se abbiamo accettato apparentemente senza controllo la menzogna da lui inventata e creduta, se abbiamo effettivamente cercato di considerarlo e interpretarlo come essere duplice, come lupo della steppa, abbiamo approfittato, sperando di essere meglio compresi, di un inganno che ora cercheremo di giustificare.
La bipartizione in lupo e uomo, in istinto e spirito, con la quale Harry cerca di spiegarsi la sua sorte è una semplificazione assai grossolana, una violazione della realtà per ottenere una plausibile ma errata spiegazione delle contraddizioni che costui trova in se stesso e che gli sembrano la fonte delle sue non poche sofferenze.
Harry trova dentro di sé un “uomo”, cioè un mondo di pensieri, di sentimenti, di cultura, di natura addomesticata e sublimata, e trova in sé anche un “lupo”, cioè un mondo buio di istinti selvaggi, di crudeltà, di natura rozza e non sublimata.
Nonostante questa suddivisione, apparentemente ovvia, della sua natura in due emisferi ostili fra loro, egli ha visto però di continuo che il lupo e l’uomo si sopportano a vicenda nei momenti felici.
Se in ogni istante della vita, in ogni azione, in ogni sensazione Harry volesse rilevare quale parte vi abbia l’uomo e quale il lupo, si troverebbe tosto con le spalle al muro e tutta la sua elegante teoria lupina andrebbe a rotoli.
Nessun uomo infatti, neanche il negro primitivo, neanche l’idiota è così simpaticamente semplice che si possa spiegarne la natura come una somma di soltanto due o tre elementi principali; spiegare poi un uomo così complicato come Harry con l’ingenua suddivisione in lupo e uomo è impresa disperata e puerile.
Harry non consta di due esseri ma di cento, di mille.
La sua vita (come quella di tutti gli uomini) non oscilla soltanto fra due poli, diciamo quelli dell’istinto e dello spirito, o quelli del santo e del gaudente, ma fra migliaia, fra innumerevoli paia di poli.
Non deve però stupirci che un uomo così istruito e intelligente come Harry possa credersi un “lupo della steppa” e pensare che si possano accogliere le forme ricche e complicate della sua vita entro una formula così semplice, così brutale, così primitiva.
L’uomo non possiede un’alta facoltà di pensiero e, per quanto sia intelligente e colto, vede continuamente il mondo e se stesso, specie se stesso, attraverso le lenti di formule molto ingenue, semplificanti e traditrici.
Infatti, a quanto pare, tutti gli uomini hanno un bisogno innato e impellente di immaginare il proprio io come unità.
Per quanto venga scossa anche gravemente, questa illusione rimargina ogni volta.
Il giudice che siede di fronte all’assassino e lo guarda negli occhi e lo sente parlare per un istante con la voce propria (del giudice) e trova anche nel proprio cuore i medesimi istinti, le stesse attitudini, le stesse possibilità, dopo un solo istante ridiventa lui, è di nuovo giudice, ritorna nel guscio del proprio io vanitoso, fa il suo dovere e condanna a morte l’assassino.
E quando in certe anime particolarmente intelligenti e delicatamente organizzate balena l’intuizione della loro molteplicità, quando, come fa ogni genio, esse infrangono l’illusione dell’unità personale e sentono di essere pluriformi, di essere un fascio di molti ii, basta che lo dicano e tosto la maggioranza le imprigiona, ricorre all’aiuto della scienza, fa costatare la loro schizofrenia e protegge l’umanità perché non debba ascoltare dalle labbra di questi infelici un richiamo alla verità.
Ma che bisogno c’è di sprecar parole, di dire cose che chiunque pensi trova naturali, che però non sta bene manifestare? Quando dunque un uomo arriva già a sdoppiare la pretesa unità dell’io è già quasi un genio, in ogni caso però un’eccezione rara e interessante.
In realtà nessun io, nemmeno il più ingenuo è un’unità, bensì un mondo molto vario, un piccolo cielo stellato, un caos di forme, di gradi e situazioni, di eredità e possibilità.
Che ciascuno tenda a prendere questo caos per un’unità e parli del suo io come fosse un fenomeno semplice, ben fissato e delimitato: questa illusione ovvia ad ogni uomo (anche al più elevato) sembra una necessità, un’esigenza di vita come il respiro e il nutrimento.
Questa illusione è frutto di una semplice trasposizione.
Come corpo ogni uomo è uno, come anima mai.
Anche nella poesia, persino nella più raffinata, si introducono per tradizione personaggi apparentemente interi, apparentemente unitari.
Nella poesia del passato i competenti, i conoscitori, apprezzano soprattutto il dramma, ed è giusto, poiché esso offre (o dovrebbe offrire) la miglior possibilità di rappresentare l’io come molteplicità…
se a ciò non contraddicesse l’evidenza, la quale ci illude mostrandoci ogni singolo personaggio del dramma come un’unità, dato che è racchiusa innegabilmente in un corpo singolo e unitario.
L’estetica ingenua ha infatti la massima stima del così detto dramma di caratteri nel quale ogni personaggio è riconoscibile e si presenta come unità a sé.
Solo da lontano e a poco a poco si fa strada in alcuni l’intuizione che cotesta è forse un’estetica facilona e superficiale, e che siamo in errore quando applichiamo ai nostri grandi drammaturghi i concetti di bellezza dell’antichità, concetti stupendi ma non innati, bensì istillati nel nostro spirito, mentre l’antichità partendo sempre dal corpo completo ha inventato la finzione dell’io, della persona.
Nei poemi dell’India antica questo concetto è assolutamente ignoto, gli eroi dell’epopea indiana non sono persone, ma conglomerati di persone, serie d’incarnazioni.
E nel nostro mondo moderno ci sono poemi nei quali, dietro il velame del giuoco di persone e di caratteri, si tenta di rappresentare, quasi senza che l’autore se ne renda conto, una molteplicità psichica.
Volendo capire questo fatto bisogna decidersi a non considerare i personaggi d’una simile opera di poesia come singole creature, ma come parti, lati, aspetti diversi di una superiore unità (sia pure dell’anima del poeta).
Chi consideri il Faust in questo modo, vedrà che Faust, Mefistofele, Wagner e tutti gli altri sono un’unità, una superpersona, e soltanto con questa unità superiore, non coi personaggi singoli, si accenna alla vera essenza dell’anima.
Quando Faust pronuncia le parole, celebri fra i maestri di scuola, ammirate con un brivido dai borghesucci: “Due anime, ahimè, son nel mio petto!” egli dimentica Mefistofele e una folla di altre anime che sono anch’esse nel suo petto.
Anche il nostro lupo crede di aver in petto due anime (lupo e uomo) e già gli pare di avere il petto molto angusto.
Il petto, il corpo è infatti sempre uno, le anime invece che vi albergano non sono due o cinque, ma infinite; l’uomo è una cipolla formata di cento bucce, un tessuto di cento fili.
I vecchi asiatici lo sapevano bene e lo Yoga dei buddhisti ha inventato una tecnica precisa per smascherare l’illusione della personalità.
Divertente e molteplice è il giuoco dell’umanità: l’illusione, per smascherare la quale l’India si è affaticata per un millennio, è quella stessa che l’Occidente ha durato uguale fatica a sostenere e a rafforzare.
Se consideriamo il lupo della steppa con questo criterio, capiremo perché soffra tanto della sua ridicola duplicità.
Egli crede, come Faust, che due anime siano troppe per un solo petto e pensa che lo debbano dilaniare.
Sono invece troppo poche e Harry fa violenza alla sua povera anima quando cerca di comprenderla in un’immagine così primitiva.
Benché sia persona così colta, Harry si comporta come un selvaggio che non sappia contare più in là di due.
Una parte di sé la chiama uomo, l’altra parte lupo, e con ciò crede di aver finito e di aver esaurito il suo compito.
Nell'”uomo” egli caccia tutto quello che ha in sé di spirituale, di sublimato o per lo meno di culturale, e nel “lupo” tutto ciò che ha di istintivo, di selvatico e di caotico.
Ma la vita non è semplice come il nostro pensiero, grossolana come il nostro povero linguaggio di idioti, e Harry mente due volte a se stesso quando usa questo metodo lupino da negri.
Temiamo che egli attribuisca già all’uomo intere provincie del suo spirito le quali non sono ancora umane neanche lontanamente, e ponga nel lupo parti della sua natura che hanno già di gran lunga sorpassato la zona lupina.
Come tutti, anche Harry crede di sapere che cosa sia l’uomo, mentre non lo sa affatto benché molte volte ne abbia l’intuizione nei sogni e in altri stati d’animo difficilmente controllabili.
Auguriamoci che non dimentichi queste intuizioni e le faccia possibilmente sue! L’uomo non è una forma fissa e permanente (questo fu, nonostante le intuizioni contrarie dei suoi sapienti, l’ideale dell’antichità), ma è invece un tentativo, una transizione, un ponte stretto e pericoloso fra la natura e lo spirito.
Verso lo spirito, verso Dio lo spinge il suo intimo destino; a ritroso, verso la Natura, verso la Madre lo trae la sua intima nostalgia: tra l’una e l’altra di queste forze oscilla la sua vita angosciata e tremante.
Quello che di volta in volta gli uomini intendono col concetto di “uomo” è sempre una convenzione borghese transitoria.
Certi istinti rudimentali vengono respinti e condannati da questa convenzione la quale chiede un po’ di coscienza, di civiltà, di sbestiamento; e un pochino di spirito è non solo permesso ma persino richiesto.
L'”uomo” di questa convenzione è, come ogni ideale borghese, un compromesso, un tentativo timido e ingenuamente astuto di gabbare sia la natura, cattiva madre originaria, sia lo spirito, molesto padre originario, nelle loro pretese violente e di trovare nel giusto mezzo un tiepido domicilio.
Per questo il borghese permette e tollera quella che chiama “personalità” ma la consegna nello stesso tempo al mostro chiamato “stato” e li pone l’una contro l’altro.
Perciò il borghese brucia oggi per eretico e impicca per delinquente quello stesso al quale posdomani erigerà monumenti.
Che l’uomo non sia una cosa già creata ma un postulato dello spirito, una possibilità lontana altrettanto invocata quanto temuta e che la via per arrivarci sia sempre percorsa per un breve tratto, fra tormenti ed estasi inenarrabili, da quei rari individui ai quali oggi tocca il patibolo, domani il monumento: questo sospetto è vivo anche nel lupo della steppa.
Ma quello che in antitesi al suo “lupo” egli chiama “uomo” è in gran parte null’altro che quell'”uomo” mediocre della convenzionalità borghese.
La via per giungere all’uomo vero, agl’immortali, Harry può benissimo intuirla, la percorre anche per qualche brevissimo tratto, con esitazione, e paga questo percorso con gravi dolori, con penoso isolamento.
Ma di quel postulato supremo che impone di aspirare a diventare uomo secondo lo spirito, di percorrere l’unica stretta via dell’immortalità, egli ha paura in fondo all’anima.
Capisce che arriverebbe a dolori ancor maggiori, alla proscrizione, all’ultima rinuncia, forse al patibolo…
e quantunque in fondo a questa via appaia la lusinga dell’immortalità, tuttavia egli non ha voglia di patire tutte queste pene, di morire tutte queste morti.
Benché la necessità di diventare uomo gli sia più palese che ai borghesi, chiude gli occhi e non vuol rendersi conto che quel disperato attaccamento all’io, quel disperato rifiuto di morire è la via più sicura per arrivare alla morte eterna, mentre il saper morire, il saper spogliarsi e abbandonare l’io alle metamorfosi conduce all’immortalità.
Quando egli adora i suoi beniamini fra gl’immortali, per esempio Mozart, lo vede ancora con occhi borghesi e sarebbe disposto a spiegare la perfezione di Mozart, proprio come fanno i maestri di scuola, con la sua intelligenza di specialista, anziché spiegarla con la grandezza della sua dedizione e della disposizione a soffrire, con la sua indifferenza verso gl’ideali borghesi e con la sopportazione di quell’estremo isolamento che rarefà intorno ai sofferenti, a coloro che diventano uomini, ogni atmosfera borghese trasformandola in un glaciale etere dell’universo, nella solitudine nell’orto di Getsemani.
Vero è che il nostro lupo della steppa ha scoperto in sé almeno la duplicità faustiana, ha trovato che l’unità del suo corpo non contiene un’unità di spirito e nel migliore dei casi è avviato al lungo pellegrinaggio che porta all’ideale di questa armonia.
Egli vorrebbe o vincere il lupo che ha dentro e diventare uomo oppure rinunciare all’uomo e vivere per lo meno da lupo una vita unitaria e intera.
Probabilmente non ha mai osservato un lupo vero.
In tal caso avrebbe forse visto che anche le bestie non hanno un’anima sola, che le belle forme del loro corpo nascondono una pluralità di aspirazioni e di stati d’animo, che anche il lupo contiene abissi, anche il lupo soffre.
Seguendo il “ritorno alla natura” l’uomo si incammina sempre per una via sbagliata piena di dolori e priva di speranze.
Harry non potrà mai ridiventare interamente lupo e, se potesse, vedrebbe che anche il lupo non è né semplice né primordiale ma già qualche cosa di complicato e molteplice.
Anche il lupo ha in petto due e più che due anime, e chi desidera essere lupo commette la stessa dimenticanza di quell’uomo che canta: “Quale gioia essere ancor fanciullo!”.
L’uomo simpatico ma sentimentale che canta la canzone del fanciullo beato vorrebbe ritornare anche lui alla natura, all’innocenza, all’inizio, ma ha dimenticato che i fanciulli non sono per nulla beati, che anch’essi hanno i loro conflitti, i loro dissidi, le loro sofferenze.
Non vi è strada che porti indietro, né al lupo né al fanciullo.
In principio non vi è innocenza né semplicità; tutto ciò che è creato, anche le cose apparentemente più semplici, sono già colpevoli, sono già molteplici, buttate nel sudicio fiume del divenire e non possono mai più, mai più risalire la corrente.
La via verso l’innocenza, verso l’increato, verso Dio non è un ritorno, ma un proseguire, non porta verso il lupo o verso il fanciullo ma sempre avanti nella colpa, sempre più addentro nel divenire dell’uomo.
Nemmeno il suicidio ti servirà seriamente, povero lupo della steppa, percorrerai la via più lunga, più difficile, più faticosa del divenir uomo, dovrai moltiplicare ancora più volte la tua duplicità, complicare ancor più la tua natura complicata.
Invece di restringere il tuo mondo, di semplificare la tua anima, dovrai accogliere più mondo e infine il mondo intero nella tua anima dolorosamente ampliata per poter giungere forse un giorno alla fine, al riposo.
Questa via fu percorsa dal Buddha, da ogni uomo grande, da questo consapevolmente, dall’altro inconsciamente, secondo che gli riusciva l’ardita impresa.
Ogni nascita è separazione dal tutto, è limitazione, distacco da Dio, nuovo doloroso divenire.
Il ritorno al tutto, l’annullamento della dolorosa individuazione, il divenir Dio significa aver allargato talmente la propria anima da poter riabbracciare l’universo.
Qui non si discorre dell’uomo di cui parlano la scuola, l’economia politica, la statistica, non si discorre degli uomini che vanno in giro a milioni per le strade e valgono quanto la rena in riva al mare o gli spruzzi della risacca: un paio di milioni più o meno non contano, sono materiale, nient’altro.
Qui discorriamo invece dell’uomo in senso elevato, della meta della lunga via del divenir uomini, parliamo dell’uomo regale, degl’immortali.
Il genio non è raro come sembra, ma neanche tanto frequente come pretendono le storie letterarie e politiche o magari i giornali.
Il lupo della steppa Harry sarebbe, ci sembra, abbastanza genio per osare il tentativo di farsi uomo invece di scusarsi ad ogni difficoltà con quel suo stupido lupo.
Che uomini dotati di tale possibilità ricorrano a lupi della steppa e al “due anime, ahimè!” è strano e rattristante come il fatto che nutrano spesso un amore così codardo per la borghesia.
Un uomo che è in grado di capire il Buddha, un uomo che intuisce i cieli e gli abissi dell’umanità non dovrebbe vivere in un mondo dove regnano il buon senso, la democrazia e la civiltà borghese.
Egli ci vive soltanto per vigliaccheria e quando le sue dimensioni lo opprimono, quando la stanzetta borghese gli diventa troppo stretta, ne dà la colpa al “lupo” e non ne vuol sapere di ammettere che in certi momenti il lupo è la sua parte migliore.
Tutto ciò che vi è di selvatico in lui lo chiama lupo e lo considera come qualche cosa di cattivo e di pericoloso, come uno spauracchio borghese…
però, pur credendosi artista e dotato di sensi delicati, non è capace di vedere che in lui vivono anche altre cose oltre il lupo, che non tutto è lupo quel che morde, che vi sono in lui anche la volpe, il drago, la tigre, la scimmia e l’uccello del paradiso; e non vede che tutto questo mondo, questo paradiso terrestre è soggiogato da figure soavi e terribili, grandi e piccole, forti e tenere ed è tenuto prigioniero dalla fiaba del lupo allo stesso modo che l’uomo vero dentro di lui è soggiogato e incatenato dall’uomo apparente, dal borghese.
Si immagini un giardino con cento specie di alberi, con mille specie di fiori, con cento specie di frutta e di erbe.
Se il giardiniere di questo giardino non sa fare altra distinzione botanica che quella tra “mangereccio” e “zizzania”, non saprà che farsene dei nove decimi del giardino, strapperà i fiori più affascinanti, abbatterà gli alberi più nobili o almeno li odierà e li guarderà bieco.
Così fa il lupo della steppa coi mille fiori che ha nell’anima.
Quel che non entra nelle rubriche “uomo” o “lupo” egli non lo vede nemmeno.
E quante cose mette nella categoria “uomo”! Tutti gli atti vili, scimmieschi, sciocchi e meschini, se proprio non sono lupini, vanno nell'”uomo” e così tutti gli atti forti e nobili nel “lupo”, soltanto perché non è riuscito a padroneggiarli.
Ora prendiamo commiato da Harry e lo lasciamo andare per la sua strada.
Se fosse già presso gl’immortali, dove dovrebbe portarlo il suo difficile cammino, come assisterebbe meravigliato a questo andirivieni, allo zig zag irresoluto e folle della sua strada, come sorriderebbe divertito e pietoso, con aria di rimprovero e d’incoraggiamento, al lupo della steppa!

Hermann Hesse, 1927

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