1. Premessa

Il Buddhismo nasce essenzialmente come una filosofia, un insegnamento sul senso della vita e del mondo. Poiché in esso originariamente non si fa riferimento ad una o più divinità supreme, sarebbe forse più corretto non considerarlo come una vera e propria religione. Tuttavia, la presenza dominante della dimensione soteriologica1 e la profonda venerazione di cui i fedeli hanno ben presto fatto oggetto il suo fondatore, fanno sì che il Buddhismo venga considerato non ingiustificatamente tra le grandi religioni.

2. BUDDHA

Fondatore del Buddhismo è il principe Siddhàrta, della nobile famiglia Gautàma, appartenente alla tribù guerriera dei Sakya. Nasce intorno al 560 a.C. a Lumbini, presso Kapilavàstu, città dell’India settentrionale di cui suo padre Suddhodana era il signore. Cresce nel lusso e negli agi della corte, riceve un’ottima educazione e primeggia negli studi. Per precisa volontà di Suddhodana, la sua gioventù trascorre tra piaceri e divertimenti, in una sorta di isola felice dalla quale le imperfezioni e le sofferenze del mondo reale sono bandite. Il matrimonio con Yasodhara e la nascita del figlio Rahula completano un quadro idilliaco.
La vita di Siddharta subisce una svolta decisiva quando, malgrado l’impegno del padre, egli viene a contatto con le miserie umane incontrando un vecchio, un malato e un funerale. Profondamente colpito dall’esperienza del dolore e della caducità, prova un senso di insoddisfazione per l’esistenza condotta sino ad allora. Un quarto incontro con un monaco gli appare come la risposta alle inquietudini che lo turbano: decide di abbandonare la famiglia e le ricchezze per diventare un pellegrino in cerca della verità sulla sofferenza e la vita dell’uomo.
Si reca presso maestri di saggezza che lo guidano negli studi, ispirati soprattutto alle Upànishad ; in seguito, in compagnia di cinque discepoli, pratica per sei anni l’ascesi più rigida, ritenendo che attraverso le mortificazioni corporali sia possibile consentire alla mente di penetrare con maggiore chiarezza le verità più recondite. Dopo essersi sottoposto ad esercizi penitenziali molto severi (ad esempio un digiuno tanto prolungato da provocare la caduta dei capelli), si rende conto della loro inutilità e li abbandona per adottare uno stile di vita più ragionevole.
La seconda grande svolta, quella decisiva, si verifica durante una notte trascorsa in meditazione, quando raggiunge l’Illuminazione sul dolore, sulla sua origine e sugli strumenti atti a liberarne l’uomo. Superata la tentazione di tenere per sé la scoperta della via che porta alla salvezza, Siddharta comincia ad insegnare ciò che ha appreso dalla sua straordinaria esperienza. I primi a seguirlo sono i compagni che avevano condiviso con lui la vita ascetica, ai quali rivolge la cosiddetta “Predica di Benares”, il discorso in cui riassume i concetti fondamentali della propria dottrina.
Malgrado l’opposizione di non pochi avversari, Siddharta, che i discepoli chiamano Buddha, con la sua predicazione, talvolta accompagnata da eventi prodigiosi, riscuote grande successo ed ottiene numerose conversioni in tutte le classi sociali nel corso di una lunga serie di viaggi. Tornato a Kapilavastu, vi incontra il padre Suddhodana e il figlio Rahula e, per accontentare la matrigna Mahaprajapati desiderosa di essere sua discepola, vi fonda il ramo femminile dell’ordine. Nascono così varie comunità di fedeli composte da religiosi e da laici, che dopo la sua morte, avvenuta forse nel 480 a.C., conservano e diffondono la dottrina da lui elaborata.

3. LA DOTTRINA (DHARMA)

La dottrina buddhista ha un carattere pratico più che teoretico, è cioè volta ad indicare concretamente un efficace cammino di salvezza. Siddharta diffida dei procedimenti logici troppo raffinati dei filosofi, che vogliono raggiungere la conoscenza per via deduttiva e si perdono in dispute prive di costrutto. Ciò che conta nella vita dell’uomo non è tentare un’impossibile dimostrazione dell’eternità o dell’infinità del mondo, ma conoscere ed applicare la teoria che conduce alla liberazione dal dolore.
Il nucleo della dottrina è costituito dalle cosiddette Quattro Nobili Verità:

1. L’universalità della sofferenza

Il punto di partenza della riflessione di Buddha è una constatazione: la vita umana è sofferenza. Certo esistono anche esperienze piacevoli o gioiose, ma esse si rivelano in ultima analisi illusorie, perché legate a realtà passeggere, destinate, come tutte le cose di questo mondo, a corrompersi e a scomparire. A partire dalla nascita, dunque, e soprattutto in occasione della malattia, della vecchiaia e della morte, tutto è dolore.
Nell’ottica buddhista, la conoscenza di questa grande verità non deve indurre alla disperazione, ma costituisce soltanto il primo passo verso la salvezza.

2. L’origine della sofferenza: il desiderio

Ogni uomo è soggetto ad una forza interiore che Buddha chiama “sete” (tanha in lingua Pali), ad un desiderio che induce a cercare soddisfazione nelle realtà mondane: è sete di godimento, di ricchezza, di eternità, di legami con altre persone. Queste cose tuttavia, soggette alla legge del divenire, sono precarie, non durano, e non possono quindi spegnere l’impulso che spinge a ricercarle. Ciò è dimostrato dal fatto che coloro che si fanno condizionare dal desiderio non sono mai soddisfatti della loro esistenza e si rivolgono continuamente a qualcosa di diverso.
E’ la “sete” a provocare il fenomeno delle rinascite: la vita non si esaurisce con la morte fisica, ma si prolunga in esistenze successive, attraverso rinascite in nuovi esseri dotati di caratteri che dipendono dalle scelte effettuate nelle vite precedenti. La Legge eterna del Karman, o della Retribuzione, stabilisce infatti che gli individui ricevano nell’esistenza futura, per ogni loro atto positivo o negativo, un compenso o un castigo; così chi agisce bene sarà un essere migliore, un uomo di grande qualità, saggio e longevo, mentre chi agisce male patirà difficoltà e sofferenze, o addirittura rinascerà in un animale. L’essere capace di comportarsi bene, affrancandosi gradualmente dal dominio delle cose materiali, migliorerà di vita in vita la sua condizione, sino ad ottenere la fine del ciclo delle rinascite (detto samsara) e l’ingresso nel nirvana .

3. La liberazione dalla sofferenza: l’eliminazione del desiderio

Per vincere la sofferenza è necessario sottrarsi al desiderio che ci mantiene legati alle cose. Solo così è possibile spezzare la catena delle rinascite che tiene avvinto l’uomo all’esistenza terrena. Quando il processo di affrancamento dal desiderio è completo, si raggiunge la beatitudine suprema, costituita dal nirvana: è la meta finale, lo stato di totale liberazione dai condizionamenti, che pone fine alle rinascite e conduce alla felicità.
Il concetto non è di facile definizione, anche perché nei testi buddhisti viene prevalentemente descritto attraverso connotazioni negative: assenza di sensazione, dolore, malattia e morte, cessazione del desiderio e della sofferenza, fine del ciclo delle rinascite (già il senso etimologico di nirvana è indicativo: estinguere una fiamma con un soffio). Non si tratta però di una distruzione totale, perché in questo caso il risultato sarebbe semplicemente il nulla. Bisogna piuttosto pensare all’eliminazione di tutti i condizionamenti ai quali vanno soggetti gli esseri nella loro dimensione individuale, i quali si aprono così ad un’esistenza illimitata. Dal superamento dei legami con questo mondo, dunque, deriveranno una tranquillità assoluta e definitiva e un’indescrivibile beatitudine.

4. La via che conduce al nirvana: l’Ottuplice Sentiero

I pur gravi condizionamenti provocati dal karman non compromettono la libertà degli esseri: chiunque, volendolo, può giungere al nirvana. A tal riguardo Buddha propone ai discepoli di seguire l’Ottuplice Sentiero, che consiste nel rispetto dei seguenti precetti:
1) Retta Fede: credere nelle Quattro Nobili Verità.
2) Retta Intenzione: voler seguire la via del distacco per raggiungere il nirvana.
3) Retta Parola: dire sempre la verità e non danneggiare gli altri con le parole.
4) Retta Azione: evitare i peccati e non danneggiare gli altri con le proprie azioni.
5) Retto Sistema di vita: esercitare soltanto mestieri ed attività compatibili con una esistenza onesta.
6) Retto Sforzo: impegnarsi seriamente per superare ogni ostacolo sulla via delle Quattro Verità.
7) Retta Attenzione: affrontare nel modo giusto ogni situazione mantenendo un pieno dominio di se stessi.
8) Retta Concentrazione: esercitare un controllo sempre più efficace della propria mente attraverso la meditazione, e giungere così alla conoscenza della verità.
Chi percorre fino in fondo l’Ottuplice Sentiero raggiunge lo stato di arhat (santo), che garantisce la fine delle rinascite e l’ingresso nel nirvana.

4. LA COMUNITA’ (SANGHA)

Non è possibile parlare del Buddhismo senza trattare della comunità, che insieme a Buddha ed al Dharma costituisce la Triplice Gemma, cioè il nucleo degli elementi che lo caratterizzano in modo essenziale. Secondo una tradizione che appare nel complesso degna di fede, sarebbe stato lo stesso Buddha a fondare le prime comunità, basate sull’ideale di un pieno egualitarismo. A differenza di quanto accade nell’Induismo, non sono ammesse limitazioni legate alle caste e, almeno in linea di principio, l’ingresso nel Sangha è aperto a tutti.
Sin dai tempi antichi costituiscono la comunità buddhista due grandi componenti: i laici ed i monaci (o bonzi).

– I laici

Sono tenuti a rispettare le Cinque Regole fondamentali della morale:
1) Non uccidere: tutela non solo l’uomo, ma tendenzialmente tutti gli esseri viventi.
2) Non rubare: esprime non soltanto l’obbligo di astenersi dal furto, ma anche la necessità di evitare un eccessivo attaccamento alle cose in nome di una generosità che deve estendersi a tutti.
3) Non avere relazioni sessuali illecite: evitare rapporti sessuali al di fuori del matrimonio.
4) Non mentire: oltre al divieto di affermare il falso, prescrive anche che ci si astenga da qualsiasi uso malvagio ed offensivo della parola.
5) Astenersi da alcool e stupefacenti: bisogna evitare qualsiasi sostanza che diminuisca il controllo di se stessi.
Ai fedeli laici è inoltre richiesto di utilizzare i propri beni per fornire aiuto materiale ai monaci ed agli ammalati.

– I monaci

Sono coloro che abbandonano la vita mondana per aderire più profondamente alla dottrina di Buddha.
Superato un periodo di noviziato che li prepara alla vita religiosa, entrano a far parte a tutti gli effetti dell’ordine. Non esiste una struttura gerarchica, in quanto l’unico criterio che stabilisce una distinzione tra i membri è quello dell’anzianità di ingresso nello stato monastico. Le comunità femminili, la cui fondazione risale allo stesso Buddha, non hanno lo stesso rilievo di quelle maschili e sono ad esse subordinate.
I monaci sono tenuti ad una disciplina ferrea, codificata in norme che tutti devono rispettare puntualmente. Lo scopo del codice comunitario è quello di favorire il distacco completo dalle cose e dal proprio io, condizione indispensabile per accedere al nirvana.
Dieci sono le regole basilari. A quelle previste per i laici se ne aggiungono altre cinque specifiche per i monaci:
1. Nutrirsi solo nel periodo stabilito: fino a mezzogiorno.
2. Astenersi da balli, canti e spettacoli.
3. Rinunciare a cosmetici e ornamenti.
4. Rinunciare a seggi e letti alti e lussuosi.
5. Rifiutare denaro e preziosi.
Più in generale, si può dire che i valori fondamentali ai quali i bonzi devono ispirarsi siano i seguenti:
1. Povertà: le proprietà personali devono essere limitate a semplicissimi oggetti di uso quotidiano, quali le vesti indossate, un ago, la ciotola per il cibo; il solo mezzo ordinario di sostentamento è l’elemosina dei fedeli, alla quale il monaco deve affidarsi per l’unico pasto giornaliero.
2. Celibato: perché rapporti sessuali, matrimonio e paternità creano vincoli che rafforzano i legami con il mondo.
3. Mortificazione: consiste nel combattere i desideri corporali; si esprime soprattutto nel digiuno.
4. Non-violenza: tale principio, già presente tra le Cinque Regole fondamentali dei laici, viene portato alle estreme conseguenze (ad esempio, i monaci filtrano l’acqua prima di berla, per evitare di inghiottire inavvertitamente eventuali insetti); da ciò deriva l’atteggiamento tollerante dei buddhisti nei confronti delle altre religioni.
5. Aiuto reciproco: è in un certo senso la versione in positivo del principio precedente; invita a mantenere un atteggiamento di benevolenza ed amore nei confronti di ogni creatura.
Quanto all’aspetto liturgico, le cerimonie del Buddhismo delle origini sono poche:

Il giorno di digiuno ogni primo giorno della settimana lunare, accompagnato a settimane alterne dalla confessione pubblica dei peccati.
La segnalazione pubblica dei peccati dei monaci da parte dei loro confratelli, una volta all’anno, prima del periodo delle peregrinazioni.
L’anniversario di nascita, illuminazione e ingresso nel nirvana di Buddha, alla luna piena che cade tra aprile e maggio.
Più dei riti comunitari caratterizza fortemente la religiosità buddhista l’esperienza della meditazione. Essa consiste in una concentrazione assoluta della mente, che si ottiene gradualmente seguendo l’Ottuplice Sentiero ed acquisendo una particolare tecnica. Attraverso la meditazione i fedeli possono giungere alla conoscenza della verità ed alla definitiva liberazione dai condizionamenti del mondo, e cioè al nirvana.

5. GLI SVILUPPI STORICI

Come molte religioni, anche il Buddhismo ha conosciuto nel corso della sua lunga storia crisi e divisioni, che hanno dato origine a svariate sette e correnti. Noi ci limitiamo a ricordarne due tra le più storicamente rilevanti.

1. Hinayana o Theravada

E’ la scuola più antica, che ritiene di ispirarsi direttamente all’insegnamento originale di Buddha. Il nome Hinayana, che significa letteralmente “Piccolo Veicolo”, le venne attribuito in senso dispregiativo dagli esponenti dell’indirizzo Mahayana; attualmente si preferisce definire questa tradizione con il termine Theravada (“Dottrina degli Anziani”), che indicava inizialmente una corrente formatasi nel IV secolo a.C., l’unica delle antiche scuole ad essere sopravvissuta sino ad oggi. E’ presente soprattutto nello Sri Lanka e nel Sud-Est asiatico.
Il Buddhismo Theravada ammette come testi normativi soltanto quelli più antichi, contenuti nel Canone in lingua Pali definito nel Concilio di Rajagrha (477 a.C circa) poco dopo la morte di Buddha, e completato nel II Concilio di Pataliputra (244 o 243 a.C.) durante il regno di Asoka Maurya (274-236 a.C). Il Canone è detto Tripitaka (“Tre Canestri”), in quanto si compone di:

Canestro della disciplina monastica (Vinaya–Pitaka): comprende tra l’altro le 227 regole cui devono uniformarsi i monaci.
Canestro dei sermoni (Sutra-Pitaka): pronunciati da Buddha e dai suoi primi seguaci sulla dottrina.
Canestro della legge (Abhidharma-Pitaka): riprende i concetti espressi nel Canestro dei sermoni esponendoli in maniera più organica
Al centro della dottrina theravada è la figura dell’arhat (santo), colui che, compiuto l’itinerario di salvezza indicato da Buddha, dopo la morte non rinascerà più ed entrerà nel nirvana. Il raggiungimento di tale traguardo richiede impegno personale e costante applicazione nella meditazione. La condizione ideale è quella del monaco.

2. Mahayana

Mahayana significa “Grande Veicolo”, in quanto i seguaci di questa corrente ritengono l’interpretazione dell’insegnamento di Buddha che essa propone migliore di quella hinayana. Sviluppatosi come movimento organico all’inizio dell’era cristiana su basi concettuali risalenti ad un’epoca precedente (forse già al Concilio di Vaisali del 377 a.C. circa), il Buddhismo Mahayana si è diffuso ampiamente nell’Asia Centro-Occidentale, in particolare in Cina, Korea e Giappone.
Pur considerando il Canone Pali riconosciuto dal Theravada come la base della dottrina buddhista, il Mahayana non lo ritiene la fonte esclusiva, ma annette importanza anche ad altri testi. Ciò gli conferisce in generale un carattere meno tradizionalista e più aperto al confronto con la modernità.
La figura ideale di riferimento è quella del bodhisattva (“colui la cui essenza è la saggezza”), che si differenzia dall’arhat per un aspetto di grande rilievo: mentre il santo theravada, che ha meritato la liberazione dalle rinascite con la propria condotta, entra nel nirvana dopo la morte, il bodhisattva rinuncia temporaneamente al nirvana, al quale pure avrebbe diritto, per continuare ad offrire alle altre creature il proprio aiuto in vista della salvezza. Si può quindi affermare che, mentre la virtù cardinale dell’arhat è la saggezza, quella del bodhisattva sia la compassione (karuna), la capacità di farsi carico delle sofferenze altrui. I seguaci del Mahayana ritengono che tale modello di comportamento sia più fedele all’insegnamento di Buddha, il quale, una volta scoperta la via della salvezza, non la percorse subito ma decise altruisticamente di comunicarla agli altri.
Nei confronti dell’Hinayana, inoltre, il Buddhismo Mahayana è più indulgente sul piano disciplinare, rivaluta il ruolo dei laici e delle donne e ammette quali pratiche religiose centrali, oltre alla meditazione, anche i riti e le preghiere di invocazione ai bodhisattva. Emerge anche una notevole evoluzione nell’interpretazione della figura di Buddha: non più soltanto un uomo che ha raggiunto autonomamente la verità e la salvezza, ma una manifestazione dell’Assoluto; si verifica quindi la divinizzazione di Buddha, che diventa oggetto del culto popolare. La distanza dall’”ateismo” hinayana è evidente.

6. BUDDHISMO E CRISTIANESIMO

Ogni confronto tra Buddhismo e Cristianesimo deve tener presente che le due religioni sono espressioni di tradizioni culturali molto diverse tra loro, si potrebbe dire di universi separati, e quindi riconoscere che il rischio di incomprensioni – non foss’altro che per i problemi legati all’interpretazione dei termini utilizzati – è elevato. Tuttavia, enunciata per sommi capi la dottrina buddhista, non ci sottraiamo ad un sia pur elementare tentativo di metterla in parallelo con quella cristiana, che consenta di definire le principali somiglianze e differenze.
Come il Cristianesimo, il Buddhismo sostiene che la vita dell’uomo non si può ridurre all’aspetto puramente materiale, ma propone ai credenti un cammino di crescita e di perfezionamento spirituale. Ciò determina da parte di entrambe le religioni l’esaltazione di valori quali l’amore vicendevole, la benevolenza universale, la rinuncia al piacere immediato in vista di una meta più elevata. Così si esprime la Dichiarazione Nostra Aetate, il documento del Concilio Vaticano II che tratta delle relazioni tra la Chiesa e le religioni non-cristiane: «Nel Buddhismo […] viene riconosciuta la radicale insufficienza di questo mondo mutevole e si insegna una via per la quale gli uomini, con cuore devoto e confidente, siano capaci di acquistare lo stato di liberazione perfetto, o di pervenire allo stato di illuminazione suprema» (n.2).
Molto profonde sono d’altro canto le differenze.
Fondamentale è quella legata alla diversa concezione della divinità: l’idea di un Dio personale e trascendente, artefice della salvezza dell’uomo in forza della propria infinità bontà, tipica del Cristianesimo e delle grandi religioni monoteistiche, è assente dalla dottrina buddhista, che come abbiamo visto, nella versione hinayana, propone un itinerario di salvezza essenzialmente umano, privo di un rapporto diretto con un essere supremo.
Dal punto di vista metafisico, inoltre, la dottrina dell’impermanenza dell’io è inconciliabile con l’idea di persona propria della visione cristiana e occidentale .
Le altre differenze sono in sostanza conseguenze di queste. Ci limitiamo a ricordarne alcune, che la trattazione precedente ha già fatto emergere:

L’assenza nel Buddhismo di una rivelazione divina.
La Legge del Karman e la teoria delle rinascite.
La svalutazione da parte del Buddhismo del mondo materiale, che invece nella concezione cristiana è essenzialmente buono perché creato da Dio e coinvolto nella redenzione operata da Gesù.

La parola “soteriologia” deriva dai termini greci sotèria = salvezza e logìa = discorso, e significa “dottrina che riguarda la salvezza”. Il Buddhismo è in effetti una via per liberarsi dal dolore e raggiungere la salvezza.
Fanno parte dei Veda; sono i testi sacri indù che dedicano maggiore attenzione all’interiorità.

Cioè “il Risvegliato”, colui che ha ricevuto l’illuminazione.

Occorre precisare che nella visione buddhista non trova spazio il concetto di “io” inteso come realtà personale autosussistente, come soggetto unitario e stabile, in quanto ogni essere sarebbe l’unione temporanea di fattori fisici e psichici, raggruppati nei cinque skhandha (aggregati): materia, sensazioni, percezioni e idee, attività psichica (ragionamento, fede, volontà), coscienza. Ciò che a noi appare come un individuo, quindi, è soltanto una mutevole combinazione di elementi diversi, destinata a disgregarsi al momento della morte. In questo modo si giunge a negare l’esistenza di un principio vitale e spirituale che sopravviva al corpo, quello che nel linguaggio filosofico occidentale è detto “anima” (anche nella tradizione induista trova spazio l’idea dell’anima individuale, il cosiddetto atman personale; il rifiuto di tale concetto da parte di Buddha viene pertanto definito anatman, cioè assenza di anima).
La dottrina dell’impermanenza dell’io è uno snodo problematico della dottrina buddhista. Innanzitutto contrasta con la percezione di se stessi in quanto esseri reali e individuali, che a molti appare ovvia. In secondo luogo sembra introdurre una contraddizione con un altro pilastro buddhista: come è possibile sostenere la Legge del Karman, se non si ammette una sostanza personale permanente che rappresenti l’elemento di continuità tra una vita e l’altra? In che modo le colpe e i meriti accumulati potrebbero influenzare un’esistenza successiva, se nulla resta dell’essere che l’ha vissuta?
La risposta a tali obiezioni va cercata nella causalità insita nella Legge del Karman e nell’immediatezza del passaggio da un’esistenza ad un’altra: con la morte, gli aggregati che compongono un essere si dissolvono, ma subito, per effetto del karman (costituito dalle azioni delle vite precedenti), si formano altri skhandha che producono un nuovo soggetto. L’individuo così generato non è del tutto identico al precedente, ma, ereditandone in qualche modo i caratteri, non è neppure assolutamente differente. Tra gli esempi che la tradizione buddhista propone per illustrare il fenomeno, citiamo quello della lampada accesa durante la notte: la fiamma che essa origina alla fine della notte è diversa da quella che ardeva all’inizio o a metà, ma la lampada è la stessa (Cfr. Oscar Botto, cit., pp.70-71).
A conferma delle difficoltà logiche connesse ad una simile visione, possiamo ricordare che a partire dalla prima metà del III secolo a.C. la setta dei Vatsiputriya elaborò il principio di “persona” (pugdala), come soggetto permanente che sopravvive alla morte e, portando con sé le conseguenze delle azioni precedenti, passa a successive esistenze. Si trattava, in sostanza, di un recupero del concetto induista dell’atman individuale, che semplificava la comprensione della Legge del Karman, ma venne considerato al pari di un’eresia da gran parte delle altre correnti buddhiste.

D’altro canto, se si parte dal presupposto che l’io non esista, il nirvana non può comportare l’estinzione del soggetto individuale, ma piuttosto dell’illusione della sua esistenza. Cfr. nota precedente sulla dottrina dell’impermanenza dell’io.

Il termine “trascendenza” indica la totale differenza, la sostanziale alterità di Dio nei confronti del mondo e delle creature, che viene affermata, seppure in modi parzialmente diversi, dalle tre religioni di ceppo abramitico (Ebraismo, Cristianesimo ed Islamismo).